Al tempio

Basilica S.Paolo fuori dalle mura (Roma, 2019).

Esco, devo uscire. Non sopporto più questo controllare il nulla e ciò che non mi riguarda, intervallato dalle foglie del tè di innumerevoli solitari da completare entro due minuti. O questo corridoio e queste piastrelle coi margini da evitare ove mi preparo a descrivere pensieri chiarissimi che non posso raccontare. E questa malinconia che sbuca fuori ogni tanto all’improvviso senza che si riesca a controllarla, una cosa veramente penosa.

Non so bene dove andare, ma in realtà lo so. Sarà un posto familiare, con la sua solennità, come solenni sono questi tempi e questi stati d’animo. Metto su la musica, la solita, e la malinconia, se possibile, esplode ancora di più. Lo faccio apposta. Se incrocio qualcuno abbasso il volto, certi momenti sulla faccia di gente adulta fanno ridere, o fanno pena che è peggio. Come questo ponte, ormai solo pedonale, che forse non verrà mai aggiustato.

Avvicinandomi all’ingresso per il lungo viale ancora devo abbassare questo volto segnato. Dice che fa bene esprimere ciò che si ha dentro, ma se me lo chiedi ora non sarei sicuro. E faccio anche fatica a trovare l’ingresso, il più laterale e nascosto. La basilica è bella come sempre, forse anche più adatta, così vuota e nella penombra, e fredda. I pochi turisti si ammassano intorno alle catene antiche, io vado oltre. Ai grandi mosaici dorati che amo.

Mosaico absidale (Roma, 2008).

Devo sedermi, mimetizzarmi, e scelgo il bordo dell’ultima panca. Non sono un turista, e neanche un pellegrino. Il figlio di dio bizantino che mi sovrasta lo sa che ci siamo salutati senza rancore tempo fa. Non riusciva a darmi le risposte di cui avevo bisogno, non mi accontentavo, ma sa del mio rispetto per il suo saper dare speranza e sollievo a chi riesce a trovarne in lui. Una merce preziosa, nessuno lo sa meglio di me ora. O forse siamo in tanti.

Un custode si avvicina e forse capisce, e si allontana. Per un attimo alzo lo sguardo e le cose sfumano intorno al volto del dio in terra, sembra guardarmi serio, intenso. Non ha le risposte che cerco e non ho, ma mi guarda severo. Comprende l’importanza delle cose ed allo stesso tempo mi richiama. Oltre la malinconia, mi riporta verso me stesso. Che non so nulla e che pure sono ancora qui, ancora coi miei desideri che forse gli ho confidato.

Uscendo un bimbo cinese gioca all’eco con la volta, ma la madre, forse dopo un mio sguardo, lo placa. E’ giusto, è una questione di rispetto per il luogo, a prescindere da tutto. E fuori ora è un poco più caldo, si sta bene sulla panchina del viale a leggere un paio di pagine. Prima però controllo il solito nulla, e dopo mi avvio verso casa. Con questo cazzo di piede che ancora non guarisce ed incespica ad ogni dislivello, che non sono abituato.

Viale laterale (Roma, 2008).

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